Blidas. Chouara, il quartiere dei conciatori con le vasche dell'acqua per lavorare le pelli

Il ciclo della lavorazione della pelle e la sua (in)sostenibilità

[well type=””]
Per alcuni capi di abbigliamento, come scarpe, cinture, borse e borsette, è eticamente più accettabile e sostenibile utilizzare la pelle o il sintetico?
[/well]

Il dilemma, sicuramente più sentito dal popolo dei vegetariani e dei vegani, dovrebbe interessare tutti, viste le enormi ripercussioni a livello ambientale e non solo. Insomma, tra quelli che dicono : il sintetico inquina, e gli altri: la pelle no grazie, mi sono resa conto di quanto questo argomento sia poco considerato e poco conosciuto. E facendo una ricerca personale ho constatato che esiste poco materiale anche sul web.

La pelle. Materiale di uso comune, proviene da animali macellati a scopo alimentare. L’ animale ormai è morto, quale modo migliore di onorarlo se non utilizzando tutto del suo corpo, anche la pelle? Giusto.

Ma cosa c’è dietro?

[thumbnail border=”1″ target=”_self” src=”http://permaculturasardegna.gnumerica.org/files/2017/03/concia_cuoio.jpg”]

La concia

La pelle viene trasformata in cuoio attraverso la concia.

La concia è una pratica antica che rende la pelle imputrescibile mediante una serie di passaggi complessi. La pelle una volta prelevata dall’animale, viene pulita e immersa in una soluzione satura di acqua e sale che serve a bloccare la decomposizione. Poi viene trattata con diverse sostanze chimiche estremamente tossiche e altamente inquinanti. Attualmente il cromo viene utilizzato nell’80-90% delle pelli conciate. A dire il vero esiste una concia vegetale a base di tannini utilizzata in minima parte e altrettanto inquinante.

Finché le quantità di pelli trattate erano ridotte, come accadeva un secolo fa, forse l’impatto ambientale di questa pratica poteva ritenersi contenuto. Ora vengono lavorate quantità di pelle enormi (il 16% in Italia) per soddisfare il mercato globale. Basti pensare che da una tonnellata di pelle si ottengono 200-250 kg di cuoio, una piccola quantità se si pensa ai mille usi di questo materiale, dai divani ai portafogli.

Ora mi chiedo: ma tutta questa pelle da dove arriva? E dove viene lavorata?

Come ho già accennato l’Italia lavora il 16% del cuoio totale. Una parte di questo viene importato dall’estero e arriva che ha già subito le prime fasi della concia. I trattamenti di finitura avvengono nel nostro paese. Il cuoio lavorato in Italia ovviamente dà maggiori garanzie in materia di tutela dell’ambiente e dei lavoratori, ed è garantito dal marchio “vero cuoio”.

Ma tutto il resto?

[thumbnail border=”1″ target=”_self” src=”http://permaculturasardegna.gnumerica.org/files/2017/03/operaio_conceria.jpg”]

Da dove arriva la pelle

La maggior parte della pelle arriva da due paesi: il Brasile e l’India.

Molti animali provengono dagli allevamenti intensivi del Brasile. Si parla di migliaia di capi rinchiusi in enormi capannoni che raramente vedono la luce del sole. Vengono nutriti con insilati e cereali, coltivati su ettari e ettari di terra che prima appartenevano alla foresta amazzonica.

Si tratta per lo più di bovini da carne, ma anche da latte, costretti a vivere la loro breve esistenza in un modo assolutamente innaturale e disumano. Sono animali che non vedono il sole, non mangiano erba, trattati con antibiotici per prevenire le infezioni e ormoni per farli crescere più velocemente. Sono macchine da produzione con zero considerazione e zero diritti.

Possiamo solo immaginare in che modo arrivi la morte per queste bestie: in un mattatoio saturo di odore di sangue di paura e di stress. Dove spesso e volentieri le leggi sulla macellazione non vengono rispettate.

A conclusione di questo, la carne finisce sui piatti dell’occidente: hamburger e wusterl a basso costo. E la pelle viene conciata. Lì.

Molti operai muoiono per aver inalato gas tossici ( ammoniaca e ac. Solfidrico in prevalenza) in seguito alla pulizia delle vasche che contengono le sostanze necessarie alla concia. Sono sempre sottopagati e lavorano in condizioni estreme, spesso devono sottostare alle regole del “capo” con il quale si sono indebitati, per cui niente stipendio e spesso poco cibo. Sfruttamento? Direi di si.

Tutte queste belle cose attraversano infine l’ oceano per arrivare a noi sotto forma di lenzuola di pelle.

Ma per fortuna dall’altra parte del mondo c’ è l’ India. In India si sa le vacche sono sacre, i vitelli non si possono macellare.

[thumbnail border=”1″ target=”_self” src=”http://permaculturasardegna.gnumerica.org/files/2017/03/vacca_sacre.jpg”]

Invece scopro che non è proprio così.

Infatti i vitelli vengono fatti viaggiare a piedi,fino ad arrivare nei paesi vicini, dove è consentita la macellazione. Percorrono chilometri senza sosta, spesso senza cibo ne acqua.

Per evitare che le unghie si consumino e non possano più camminare gli vengono inchiodati degli zoccoli di legno. Vengono picchiati e spronati continuamente. Se qualcuno cade viene stimolato a rialzarsi con del peperoncino strofinato sugli occhi e sul muso. Spesso arrivano a destinazione con zampe e coda fratturate. Testimonianze di veterinari parlano di animali che arrivano con il pelo ritto per la paura e lo stress. Finalmente la morte come consolazione finale.

Quelli che vengono caricati sui camion non subiscono trattamento migliore: stipati come sardine muoiono spesso in viaggio.

Non c’è da stupirsi quando la vita vale meno di zero.

Anche qui come in Brasile poi i controlli sullo smaltimento dei liquidi per la concia sono pressoché inesistenti. Vengono riversati nei fiumi e nelle falde, inquinando in maniera pesante. Ma alla fine del processo di concia non abbiamo solo residui liquidi, ma anche solidi.

Pensate che solo il 20-25 % della materia prima diventa cuoio utilizzabile. Il resto è destinato in minima parte a essere utilizzato in altre lavorazioni, come concimi o per produrre cuoio rigenerato, per il resto viene smaltito. Tutto questo dove le normativa lo prevede, si pensi che in Italia fino a qualche anno fa solo il 33% delle concerie era in regola e la concia nel nostro paese veniva considerata uno dei settori più inquinanti (solfati, azoto ammoniacale, solfuri , cloruri, cromo).

Inquinamento

Nei paesi dove i controlli non esistono fiumi di sostanze inquinanti vengono riversati nei corsi d’ acqua, sul terreno e a volte nel cuore di quartieri densamente popolati. Come accade in Bangladesh dove ogni giorno 21.000 metri cubi di veleni inondano i canali di scarico della periferia di Dhaka, una poco ridente cittadina. Gli abitanti lamentano diverse patologie, come malattie della pelle e respiratorie.

Per non parlare del livello altissimo di inquinamento delle acque infatti l’ acqua utilizzata nelle lavorazioni è pari al 400% della pelle trattata. Il Bangladesh ha esportato solo in Italia  81 milioni di dollari in pelle e prodotti trasformati. Facciamo due conti…….

Come districarsi dunque per fare degli acquisti consapevoli? Come ho detto il marchio “vero cuoio” garantisce che la pelle sia stata lavorata in Italia, dove la tutela dei lavoratori è ancora (per ora) forte e dove la legislazione in tema di smaltimento dei rifiuti tossici è molto severa.

Inoltre, secondo un ‘indagine di altro consumo, esistono ditte più serie nel controllo della filiera, e che forniscono maggiori garanzie, come Timberland, Veja, Geox, Klarks. Queste aziende si impegnano se non altro a rendere tracciabile la filiera e a eseguire controlli sulla tutela dei lavoratori. Altre invece non hanno fornito dati come la Birkenstok e Bata.

Vorrei ora solo ricordare che esiste poi un mercato collaterale, clandestino, fruttuoso quanto quello ufficiale, di pelli e pellicce provenienti da animali come cani, gatti, serpenti, scimmie ecc. uccisi senza troppe attenzioni e che arrivano fino a noi.

Tutto il sistema non è sostenibile

Questo vuole essere un piccolo contributo, un suggerimento, perche cerchiamo di mantenere gli occhi sempre ben aperti nella nebbia che ci circonda. Perché dietro alle cose di tutti i giorni, gli oggetti che compriamo, il cibo che mangiamo, si nasconde un mondo spesso sconosciuto. A volte crudele e iniquo, eticamente inaccettabile e che sinceramente mi fa adirare.

Non è solo questione di pelle si o pelle no. E’ questione che tutto il sistema non può essere sostenibile. Lo dimostrano gli allevatori della California, ridotti sul lastrico perché non hanno più i soldi per comprare i mangimi che alimentano le loro 1.750.000 vacche da latte mantenute a stabulazione fissa. L’acqua imbevibile, l’aria irrespirabile, e l ‘aumento dei malati d’ asma e di tumore. E i suicidi.

Questo è un argomento enorme. Cruciale direi. Perché attorno all’allevamento industriale ruotano numerosi aspetti, dall’utilizzo di concimi e pesticidi su larga scala, all’ introduzione degli OGM, all’inquinamento atmosferico ( al primo posto per emissioni di anidride carbonica e gas metano) e delle falde.

Nella progettazione della nostra zona zero, dove entrano anche i capi d’abbigliamento e non solo, possiamo fare molto per prenderci cura di chi ci circonda, anche se stà molto lontano da noi.

Giorgia Uras (giorgiauras@gmail.com)

Bibliografia

  • Settore concia
  • Altroconsumo (Le scarpe sulla pelle altrui)
  • Ministero dell’ ambiente Italiano settore cuoio
  • Tekneco/ 16 soluzioni green
  • La Repubblica.it Mondo Solidale
  • Libri consigliati:
    • Philip Lymbery, “Farmageddon il vero prezzo della carne economica”
    • Michael Pollan, “Il dilemma dell’ onnivoro”

One thought on “Il ciclo della lavorazione della pelle e la sua (in)sostenibilità

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *